Chris Ware
C’è un fumetto che non si ferma a raccontare, oggettivamente, le vicende di uno o più personaggi. In questo nuovo fumetto che si è sviluppato negli ultimo due decenni (in quello che si chiama comunemente con il termine snob di graphic novel, ed è come se si usasse un termine per il cinema di John Ford e un altro per quello di Ingmar Bergman) sempre di più si vuole entrare nelle emozioni dei personaggi, nelle loro emozioni segrete, nei loro pensieri. In questa nuova nobiltà letteraria che il fumetto si concede, Chris Ware è riuscito a realizzare un’opera di valore assoluto. È entrato nei meccanismi della solitudine, e della solitudine ha analizzato i terrori, i silenzi, le mancanze di presente e di futuro. Il suo Jimmy Corrigan, per poter esistere, aveva bisogno di un luogo dove stare. Non una location, ma un universo certo, fatto di linee e di angoli, di spazi precisi e sicuri. È questo il senso dell’universo perfetto, di bellezza assoluta di Ware che permette al suo personaggio di avere nel mondo esterno quei punti di riferimento che il suo animo non poteva offrirgli. E così, vignetta dopo vignetta, si rincorre un tempo fatto di pensieri, memorie, immobilismi, e così i percorsi di Ware ricordano talvolta le caselle del gioco dell’oca in cui si è costretti a ritornare indietro, a ripetere azioni già sperimentate. La costruzione bipolare di questo fumetto è lucida, e lucidamente Ware costruisce un percorso narrativo ipnotico. Allo stesso modo il terrore di certe situazioni può alternarsi all’ironia di chi le racconta (così le didascalie tipiche di certo fumetto popolare – “e dopo”, “intanto”, “e dunque”, ecc. – inserite una dopo l’altra in una serie di vignette sembrano sottolineare il senso di inutilità del passaggio del tempo, che non può cambiare le cose, quando il personaggio non ha crescita ed evoluzione). In Ware bellezza e significato si abbracciano pagina dopo pagina, creando un capolavoro di sensibilità, umana e artistica.